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In Consiglio Regionale le testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti

A 76 anni dalla fine del nazismo, ricordare e condannare gli orrori di Auschwitz e delle persecuzioni razziali è più che mai doveroso e non va considerato un fatto acquisito né scontato. Lo ha detto oggi il presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, Piero Mauro Zanin, aprendo in Aula la celebrazione del Giorno della Memoria.

“Basta infatti leggere i giornali o guardare un telegiornale – ha osservato il presidente – per accorgersi che l’odio contro il popolo ebraico serpeggia ancora in molte aree del mondo, e purtroppo anche in Italia non manca chi tristemente disconosce la storia”. “Io credo perciò – ha detto ancora Zanin – che parole e gesti che vanno nella direzione dell’antisemitismo, e più in generale della discriminazione razziale e religiosa, debbano essere sempre attentamente monitorati e respinti sul nascere”.

Piero Mauro Zanin

“Come ho detto anche durante le recenti iniziative pubbliche della scorsa settimana, alla Risiera di San Sabba a Trieste, a Gorizia e a Cormons – ha proseguito il presidente – è fondamentale che le istituzioni facciano tutte la loro parte per lottare contro violenza e discriminazioni e ribadire i nostri valori fondamentali, incoraggiando i cittadini a interrogarsi su quel tragico passato”.

Un orrore che ha attraversato anche la nostra terra, “dall’annuncio delle leggi razziali nel 1938 a Trieste, al rastrellamento degli ebrei del gennaio ’44 nella stessa città, ai campi di concentramento di Visco e di Gonars”. Ma è significativo che oggi – ha ricordato ancora Zanin – “gli stessi Stati che ai tempi della seconda guerra mondiale si sono aspramente combattuti condividano i medesimi valori di libertà politica, culturale e religiosa”.

Infine Zanin – nell’introdurre l’intervento in Aula di Mario Candotto, al quale ha consegnato un riconoscimento del Consiglio, e la testimonianza video dello scrittore Boris Pahor – ha lodato il valore della testimonianza di chi tiene viva la memoria di quei tragici anni, pur con tutto il carico di dolore ed emozione che questo comporta, nella speranza che i giovani non ripetano gli errori del passato.

LE TESTIMONIANZE: MARIO CANDOTTO

“La nostra vita era appesa a un filo: numeri, eravamo semplici numeri e io ero il 69.610. Neunundsechzigtausendsechshundertzehn! Eravamo soltanto dei pezzi, non esseri umani: nullità. I tedeschi gridavano, sempre. Non parlavano mai. Quello che racconto è la pura verità ma, se non l’avessi vissuta di persona per un lungo anno, stenterei a crederci persino io”.

Mario Candotto

Il silenzio generale dell’Aula e una palpabile commozione hanno accompagnato queste parole che riassumono il lungo intervento davanti al Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia di Mario Candotto, 94enne di Ronchi dei Legionari, uno dei pochi sopravvissuti alle sofferenze vissute nel campo di concentramento nazista di Dachau in Germania.

Emozionato ma estremamente lucido, simbolo di grande forza d’animo ed enorme dignità, Candotto ha portato la sua drammatica testimonianza al termine dell’intervento del presidente dell’Assemblea Fvg, Piero Mauro Zanin, in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria che hanno caratterizzato l’apertura lavori della prima seduta consigliare del 2021.

Parole laceranti, salutate da un applauso interminabile. “Sono state 158 le persone deportate da Ronchi e 75 di esse non hanno più fatto ritorno a casa. È importante – ha esordito Candotto – la possibilità di essere qui a parlare davanti a tutti voi a 70 anni di distanza da questi fatti. Una volta, invece, esisteva solo indifferenza. La mia fortuna è stata quella di essere stato scelto per andare a lavorare in fabbrica e, quando hanno visto la mia abilità al tornio, di rimanervi. Solo lì mi sentivo un essere umano”.

Aveva soltanto 18 anni, Candotto, quando il 24 marzo 1944 era stato prelevato insieme ai genitori e alle due sorelle: gli uomini verso Dachau, le donne verso Auschwitz in Polonia. Due spie avevano fatto arrestare 70 ronchesi e lui stesso aveva perso due giovani fratelli, entrambi partigiani, che aveva aiutato facendo la staffetta. “Sveglia alle 4.30, alle 7 in fabbrica e, in mezzo, un tormento di due ore per l’appello. E fame, tanta fame: una parola semplice – ha aggiunto – ma, quando ti prende le viscere, non riesci nemmeno a ragionare”.

Candotto ha anche ricordato la morte del papà sacrestano che “non ha resistito, mentre mia mamma chissà se è stata piegata dagli stenti o da un colpo di pistola?”. La sua è una delle ultime voci in grado di testimoniare un dramma come quello dell’Olocausto e la sua presenza costante nelle scuole costituisce più che mai un insegnamento e: “Perché i giovani devono sapere cosa è successo – ha ribadito – e fare di tutto, affinché non si ripeta mai più”.

LE TESTIMONIANZE: BORIS PAHOR

Ad agosto, lo scrittore sloveno di cittadinanza italiana Boris Pahor compirà 108 anni, ma il suo ricordo del tempo vissuto nei lager non si è affatto sbiadito. “Entrare nei campi di concentramento tedeschi era una condanna a morte, loro non lo dicevano però la verità è che si moriva, e prima di tutto per fame”, afferma lucidissimo nella videointervista rilasciata per la Giornata della Memoria celebrata in Consiglio regionale, a Trieste, in occasione della prima seduta d’Aula del 2021.

Boris Pahor

Nel 1944 fu catturato dai nazisti e internato per oltre due anni in vari campi di concentramento, in Francia e in Germania (Natzweiler, Markirch, Dachau, Nordhausen, Harzungen, Bergen-Belsen).

“Insieme alla fame, c’era il lavoro obbligatorio, dalle 6 alle 12 e dalle 13 alle 18. A pranzo avevamo del brodo che era piuttosto dell’acqua calda, invece alla sera ci davano un tozzo di pane che doveva bastare sino al giorno dopo”, ricorda Pahor.

“A Bergen-Belsen sono arrivato con altri prigionieri, stipati su sei vagoni, dopo tre giorni e quattro notti di viaggio, senza nulla da mangiare né da bere. Alcuni arrivarono già morti. A Dachau invece – prosegue il suo racconto – sono stato fatto infermiere, ero un aiuto per i malati ma anche per portare i morti nella stufa dove poi bruciavano i corpi”.

Pahor parla anche del periodo della post-liberazione, quando lo stomaco non era più abituato a ricevere cibo e prima di riprendersi gli ci vollero quattro mesi. Infine si dice grato di essere oggi ancora in discreta salute perché desidera “scrivere ancora un paio di articoli su quanto accaduto e parlare di ciò che si può fare, perché si può fare ancora molto”.