“Stelutis Alpinis”, storia di una leggenda musicale
Ancora una volta – e sarà purtroppo l’ultima a causa della recente
prematura scomparsa di Rocco (avvenuta lo scorso 14 aprile) – il collaudato sodalizio
storico-letterario Rocco Tedino-Mauro Unfer di Timau, riesce a proporci un’interessante analisi. Un chi, come, dove, quando e perché a
beneficio dei lettori curiosi dei “dietro le quinte” e interessati a vedere
riuniti intorno a un argomento, avvenimenti, testimonianze, interventi, evidenze
e prove, variamente distribuiti nel tempo e nello spazio e dai nostri
opportunamente collocati nel proprio avvincente ordine di
sviluppo.
Questa volta il soggetto della loro indagine non è né un
reperto, né un edificio particolare o un monumento, ma una canzone. E che canzone!
Sarebbe
più appropriato definirla canto,
e senza tema di smentita si può affermare che per le genti della Piccola Patria
rappresenta l’equivalente di quello che l’inno di Mameli incarna per gli
italiani.
La semplicità delle strofe di Stelutis alpinis –
celebrazione di un amore coniugale e patrio – unita alla soffusa malinconia dei
contenuti e sorretta da una melodia armoniosa, struggente ed evocativa, ne fanno
un canto noto e celebrato ben oltre i confini del nostro Friuli.
Una
composizione in lingua friulana, scritta e musicata da un friulano illustre – il
Maestro Arturo Zardini di Pontebba – ma pensata e realizzata fuori dal Friuli, a Firenze.
Un canto scaturito dal cuore di un profugo sfollato dopo la rotta di Caporetto.
Attraverso le toccanti strofe, Zardini torna con la memoria agli strazianti
avvenimenti della guerra combattuta sui propri monti di confine nell’ormai
remoto 1917.
Nell’agile volumetto bilingue (italiano e tedesco-timavese)
le pagine scorrono rapide e il palcoscenico iniziale – protagonisti il M°
Zardini e il suo canto ormai immortale – si arricchisce di comprimari (o pretesi
tali) e di comparse, con funzioni di volta in volta di estimatori, critici ma
persino di detrattori, pronti ad animare la scena di una commedia avvincente il
cui atto principale si dipana a cavallo degli anni ’40 e ’50, a quasi trent’anni
dalla scomparsa del Maestro.
Trionfi e critiche, strofe aggiunte al testo
originale e malevoli giudizi espressi in merito alla “carente tecnica musicale”
che caratterizzerebbe, secondo alcuni, l’intramontabile composizione: sono
questi alcuni degli ingredienti che Tedino e Unfer portano in luce, coniugandoli
con i luoghi della memoria, rappresentati da Timau e dal suo Tempio Ossario, sepolcro dei caduti lungo il fronte.
La prosa dei due
autori scorre fluida, a tratti scanzonata quanto basta, con un’esposizione
puntuale e meticolosa delle fonti che, di volta in volta, criticavano la tecnica
musicale utilizzata per la base armonica, che riguardavano le polemiche
scaturite dai versi aggiunti da mano altrui o che ancora si riferivano a pretese
modifiche al testo o, ancor più, alle licenze interpretative prese da alcuni
nelle esecuzioni pubbliche del canto il quale, nel frattempo, diventava sempre
più celebre e richiesto.
Una pubblicazione questa (sempre ottimamente
curata da Luciano nella Tipografia Cortolezzis di Paluzza) che sembra avere i
requisiti di un sintetico saggio
storico e di costume, ma anche l’agilità di un avvincente racconto.
Un racconto che, nel suo
incalzante ritmo espositivo, informa e coinvolge, contribuendo ad avvicinarci e
a simpatizzare con chi ha saputo dare al Friuli un canto condiviso e senza
tempo, divenuto ormai, a distanza di un secolo, icona e vessillo di un
popolo.
Corrado Venturini